LILIBEO E IL MARE

Foto iniziale (link titolo oppure sotto il titolo: Il promontorio di Lilibeo di fronte alle Egadi)

La città di Lilibeo, fondata dai Cartaginesi sul promontorio della Sicilia più vicino alla costa africana, ha intrattenuto e mantenuto durante la sua storia uno stretto legame con il mare, dovuto anzitutto alla sua posizione strategica di crocevia nelle rotte da e per l’Africa (Fig. 1).

Fig. 1

I PORTI

Proiettata sul Mediterraneo e al centro di intensi traffici commerciali, la città era dotata di un vero e proprio sistema portuale: un porto esterno situato a Nordnella baia meridionale dello Stagnone, oggi detto di Punta d’Alga, e due bacini, ubicati a Sud e a Nord-Ovestdel promontorio lilibetano, strettamente legati all’impianto urbano (Figg. 2-3).

Fig. 2
Fig. 3

Il bacino nord-occidentale, noto attraverso la fotografia aerea e le prospezioni subacquee, aveva una forma semilunata ed era compreso tra due moli, uno a N del promontorio, costituito da massi, ciottoli e scogli, in parte ancora affioranti, l’altro, a forma di linea spezzata, dinanzi alla marina del Circolo Canottieri. (Fig. 4)

Fig. 4

Come a Cartagine, probabilmente anche a Lilibeo i bacini portuali erano destinati ad usi diversi: commerciale, il porto a N di Capo Boeo, militare, il bacino meridionale dello Stagnone (Punta d’Alga) che poteva accogliere molte navi da guerra, come in occasione della partenza dell’esercito di Scipione per l’Africa (204 a.C.).

Le prospezioni condotte nello specchio d’acque di fronte alla marina del Circolo Canottieri (Missione Università di Palermo-Oxford 1982-83) hanno recuperato centinaia di anfore da trasporto, puniche, greco-italiche, romane e africane (in parte esposte al Museo), che testimoniano l’importanza di Lilibeo come emporio commerciale al centro del Mediterraneo. (Fig. 5)

Fig. 5

I due porti, quello esterno “di Punta d’Alga” e il bacino a N del promontorio, erano collegati da un canale navigabile, parallelo alla costa e separato dal mare aperto dalle secche e gli scogli, che consentiva di percorrere, al riparo dai pericoli, il tratto di mare tra l’attuale marina dei Canottieri e l’imboccatura della laguna. L’ingresso allo Stagnone era ben protetto anche da un molo che prolungava l’Isola Grande in direzione della Punta d’Alga (“muro romano”). (Fig. 6-7)

Fig. 6
Fig. 7

Ricerche d’archivio e recenti prospezioni hanno consentito di individuare tale diga a poca profondità, nello specchio d’acque tra il Circolo Canottieri e il Circolo Velico.

Si tratta di una sorta di molo frangiflutti, lungo 200 m, costruito con blocchi squadrati di grandi dimensioni, probabilmente reimpiegati dalle fortificazioni di Lilibeo. (Fig. 10)

Fig. 10

La Nave Punica di Lilibeo

Il Museo di Baglio Anselmi fu istituito nel 1986 principalmente per conservare ed esporre il relitto di una nave che costituisce una testimonianza di eccezionale importanza, anche per la sua unicità.

La nave è stata scoperta nel 1969 al largo della punta nord-occidentale dell’Isola Grande (meglio nota come “Isola Lunga”), che separa lo Stagnone di Marsala dal mare aperto.

Il luogo del rinvenimento, lo specchio di mare tra le Isole Egadi e lo Stagnone, è noto per essere stato teatro della famosa “Battaglia delle Egadi”, combattuta il 10 marzo del 241 a.C. tra Cartaginesi e Romani, che pose fine alla prima guerra punica, con la schiacciante vittoria della flotta romana.

Nei pressi del relitto che giaceva a una profondità esigua (tra i m 2 e 5), si trovavano i resti di altre imbarcazioni, alcune delle quali forse appartenenti alla medesima flotta, che subirono la stessa sorte della nave, naufragando insieme ad essa.

L’inclinazione della sua chiglia sembra indicare che la nave sia stata speronata, rimanendo in parte al di fuori dell’acqua per la scarsa profondità dei fondali in quel punto. Un elemento a sostegno di questa ipotesi è dato dalla scoperta di pochi resti umani, molto probabilmente riferibili a un unico individuo, l’unico, forse, che non riuscì a salvarsi.

Della nave si conservano il dritto di poppa e la fiancata di babordo per circa m 10 di lunghezza e 3 di larghezza, ma le sue misure dovevano essere tra m 25 e 35 in lunghezza, m 4,8 circa di larghezza e l’altezza si aggirava tra m 2 e 2,7.

La struttura della carena, per la tecnica di costruzione “a guscio portante” consistente nella realizzazione prima del fasciame e poi della struttura interna, è simile a quella delle navi greche e romane. I corsi di fasciame sono agganciati di taglio alla chiglia (la trave principale) con il sistema “a tenone e mortasa”, costituito da elementi ad incastro, e sono protetti all’esterno mediante lamine di piombo fissate con chiodi di rame; l’ossatura è invece costituita da madieri e ordinate, in alternanza regolare.

Su alcuni legni dello scafo sono tracciati segni geometrici di cantiere, con funzione di linee-guida, e lettere dell’alfabeto fenicio-punico, dipinte o incise per consentire il veloce assemblaggio delle parti “prefabbricate”. La presenza delle lettere ha indotto la maggior parte degli studiosi a riconoscere nel relitto una nave punica ma bisogna comunque evidenziare che nei cantieri navali romani venivano impiegati anche schiavi cartaginesi e che pertanto questa ipotesi, seppur largamente condivisa, va ancora dimostrata. La linea molto slanciata dello scafo ha fatto supporre che si tratti di una nave da combattimento a remi, ma i più recenti studi propendono per l’ipotesi che essa fosse a vela e a remi, quindi con un doppio sistema di propulsione e che consista in una nave militare ausiliaria, destinata ai rifornimenti delle navi da combattimento.

La cucina doveva essere ubicata al centro dello scafo e non nella parte poppiera, come in tutte le imbarcazioni commerciali note, in questa zona del relitto si concentravano, infatti, resti di pasti (ossa di bue, maiale, agnello, cervo, asino), forse relativi a cibi arrostiti ma anche olive.

La nave ha restituito materiale della dotazione di bordo: ceramiche comuni da mensa e a vernice nera, oltre a frammenti di anfore di tipo greco-italico, puniche e romane. Le anfore, ricostituibili in circa una settantina di esemplari, dovevano essere utilizzate per il trasporto e la conservazione delle provviste di bordo, mentre due ceste contenevano ramoscelli di Cannabis. Lo scafo, essendo privo di carico, era ingombro da pietre di zavorra di origine vulcanica, probabilmente provenienti dalle coste laziali.

Come indica la maggior parte dei materiali e i risultati delle analisi al radiocarbonio dei legni, l’epoca del naufragio risale intorno alla metà del III sec. a.C., e quindi in coincidenza con gli eventi della prima guerra punica.

Il relitto occupa gran parte della grande sala del museo a destra dell’ingresso.
I suoi legni sono stati riassemblati seguendo lo stesso metodo dei carpentieri che l’avevano costruita, in una struttura in acciaio che ne ricalca la forma originaria. Per integrare e completare la forma della fiancata sono state inserite nuove tavole lignee di colore più chiaro per consentire di distinguerle dal fasciame originale.

La Nave tardo-romana

Nell’aprile del 2019, nella sala adiacente a quella c.d. della Nave punica, è stato completato l’allestimento di un’altra nave antica, che ha arricchito il percorso museale dedicato al mare.

Si tratta di una nave oneraria rinvenuta nei pressi dell’antica foce del fiume Birgi, corrispondente all’odierno litorale di Marausa.

IL SITO (allegato 1)

Il litorale di Marausa, ubicato tra Trapani e Marsala di fronte alle isole Egadi, occupa una posizione geografica di collegamento tra la costa nord-africana e la Sicilia, importante nell’antichità sia dal punto di vista strategico-militare che commerciale. Resti di antiche banchine portuali attestano uno scalo fluviale in prossimità dell’antica foce del fiume Birgi (Akythios), navigabile in antico.

LA SCOPERTA

Nel 1999 due membri dell’Archeoclub di Trapani, Antonio Di Bono e Dario D’Amico, individuarono le parti lignee di una nave di età tardo-romana nei bassi fondali prospicienti il lido di Marausa, giacente a 2,50 m sotto il livello del mare, ben conservata in quanto ricoperta da uno strato di fango e da banchi di posidonia.

In seguito alla segnalazione alla Soprintendenza di Trapani, Sebastiano Tusa, allora responsabile della Sezione archeologica, condusse un’indagine subacquea nel 1999, seguita dalla campagna archeologica del 2000 che confermò l’importanza della scoperta: una nave oneraria di dimensioni notevoli per l’epoca, lunga m 16 e larga m 8, costruita con il metodo del guscio portante. Le successive campagne di scavo condotte dal 2009 al 2011 dalla Soprintendenza del Mare portarono alla luce i resti della nave e il suo carico.

I resti lignei dello scafo sono stati sottoposti a restauro con il metodo definito essiccazione sotto vuoto controllato, che consente dimantenere quasi inalterato il colore e l’aspetto originario del legno antico.

CARICO

La ceramica rinvenuta attesta la funzione di nave oneraria, destinata al trasporto di derrate, quali olio, vino e conserve di pesce, contenute in anfore. La compresenza di anfore, rivestite di resina e non, dimostra la varietà delle merci trasportate.

Il materiale proveniente dal luogo di giacitura del relitto si data tra la fine del III e il IV secolo d.C. ed è prevalentemente di produzione nord-africana.

La presenza di ceramica africana da mensa e da cucina e il rinvenimento di resti di animali destinati all’alimentazione dell’equipaggio, costituiscono importanti testimonianze della vita di bordo.

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